Da sempre nella mia famiglia la misura della propria pretesa di indipendenza sta nel rifarsi il letto.
Ricordo i miei primi tentativi, da bambina, quando non arrivavo a rimboccare bene le coperte dall’altro lato, quello contro il muro, lasciando un’accozzaglia picassiana di pieghe improbabili. Il letto poi, magicamente, alla sera era perfetto.
Quando ho iniziato ad accorgermene davvero ho sofferto. Gli sforzi di fare da me ignorati e disconosciuti, e allora il letto non lo rifaccio più. Poi sono arrivati i verbi greci e il sollievo di un riposo pronto dopo aver fatto tardi a studiare, chiusa in bagno con i paradigmi e il panico. E infine è arrivata la vita da sola, in camere case e monolocali dove alberga il privilegio ambiguo di lasciare le cose e ritrovarle esattamente così, la sera.
È stato allora, credo, che ho iniziato a capire le sfumature di cura in un letto rifatto. Alcuni parlano di disciplina, delle cose che tutti i grandi fanno sempre al mattino. Rifare il letto come somma presa di controllo sulla propria giornata. Non mi interessa.
Rifare il letto è un augurio: che tu possa trovare riposo, che il tuo corpo si appoggi su lenzuola senza pieghe, che i grovigli restino al giorno. Che la tua pelle si possa beare della tensione dei fili, del fresco del cotone che ha preso aria. Che le tue paure trovino sollievo nel peso uniforme delle coperte distese, della piega sotto il mento, del cuscino sprimacciato. È un augurio che posso decidere di farmi, ma anche di fare agli altri, alle persone con cui vivo, o che mi ospitano. Rifare il letto è una carezza al corpo dell’altro, o al mio, appena prima di andare via, o appena prima che torni.
A pensarci bene, quella mano misteriosa voleva solo dire: nel momento in cui ne avrai bisogno, io già avrò voluto prendermi cura di te.